Nel corso dell'Assemblea annuale della S.U.S.L.L.F., tenutasi il 29 novembre 2002 a Venezia, sono
stati commemorati i soci scomparsi Giovanni Bonaccorso, Carlo Cordié, Jean Rousset.
Pubblichiamo il testo delle commemorazioni di Giovanni Bonaccorso da parte di Rosa Maria
Palermo Di Stefano, di Carlo Cordié da parte di Piero Borgheggiani e di Jean Rousset da parte di
Arnaldo Pizzorusso.
Ricordo di Giovanni Bonaccorso
Per commemorare una personalità come quella del prof. Giovanni Bonaccorso, bisognerebbe
considerarne tre aspetti: l’Uomo e l’Opera, secondo una tradizione accreditata, ma anche il
Maestro, per il ruolo fondamentale da lui rivestito in questo senso.
Il tempo a disposizione mi impedisce di parlare, se non ove sia indispensabile, dell’Uomo; il
tempo, ma anche l’opportunità, poiché, nel momento in cui un uomo viene raccontato
(commemorato), diventa un personaggio, sottoposto al filtro individuale di chi lo racconta e di chi
lo ricostruisce grazie al racconto, ma anche, in questo caso, al suo bagaglio personale di ricordi, di
contatti, di esperienze, sicché il discorso diviene necessariamente soggettivo.
Lo stesso dicasi per il Maestro, che richiamerò soltanto nel momento in cui ciò mi parrà
necessario, per meglio puntualizzare il suo essere scientifico; e in questo caso è inteso che parlerò
del mio Maestro, quale per me è stato sia durante i miei anni di Università, che lo videro assistente
del prof. Cordié prima e del prof. Brunelli dopo, sia, soprattutto, nel periodo in cui sono stata sua
collaboratrice, a partire dal 1967.
Parlerò, dunque, dell’aspetto ‘scientifico’ di Bonaccorso, poiché solo così mi sembra di poter
rispettare le sue idee, secondo le quali ciò che conta, per uno studioso serio, è la sua opera,
testimonianza inalterabile, che sola può aspirare ad un giudizio imparziale.
Premetto che, essendosi introdotto nel mondo accademico non più giovanissimo, il suo impegno
universitario fu particolarmente faticoso, a volte controverso, comunque costante e inarrestabile.
L’itinerario di ricerca di Giovanni Bonaccorso mi sembra possa essere suddiviso in tre grandi
tappe: la prima, negli anni sessanta, è caratterizzata da un panorama di interessi vario (da Racine a
Marivaux, da Flaubert a Stendhal). Uno sguardo ai titoli, Les Souvenirs littéraires di Maxime Du
Camp (1963), Sulla cronologia del viaggio in Oriente di Flaubert e Du Camp (1963), Gli anni difficili di
Marivaux (1964), Sull’”Abrégé de l’histoire de Port-Royal” di Racine (1966), rende evidente, per la
frequenza di analisi fondate sull’indagine documentale, come, sin da questa fase, il suo metodo
critico andasse modellandosi secondo quei criteri che divennero per lui precipui: era infatti del
parere che l’importanza della ricerca risiede nel rigore di uno studio basato su una solida
documentazione, nel rispetto delle fonti, poiché questo soltanto consente l’elaborazione di una
critica oggettiva.
La seconda fase, che occupa grosso modo gli anni settanta, vede l’impegno di Bonaccorso, salvo
rare eccezioni, accentrarsi su Flaubert e il suo entourage, in particolare Maxime Du Camp, di cui
pubblica i mss. delle Note sul Voyage en Orient (1849-1851) (1972). Ma sono di questo periodo anche
saggi fondamentali, tra i quali: Sul testo di “Madame Bovary” (1978); Due itinerari inediti flaubertiani
(1978), Encore du nouveau sur Flaubert (1978) e i due volumi su L’Oriente nella narrativa di Gustave
Flaubert, pubblicati nel 1979 e nel 1981.
In quegli stessi anni mi fece affrontare uno dei primi studi genetici, un breve saggio su La
descrizione di paesaggio in “Un coeur simple” e mi cooptò per collaborare con lui alla pubblicazione
delle Lettres inédites del Du Camp a Flaubert (pubblicato nel 1978). Comincia l’era dei lavori a
lunga scadenza: l’impegno per la decifrazione, trascrizione, annotazione delle lettere, custodite alla
Biblioteca di Chantilly, coprì quattro anni di ricerca.
I consensi ottenuti contribuirono molto a operare nel Professore la definitiva conversione ai
manoscritti, a confermare in lui il convincimento di aver individuato un settore di ricerca valido e,
soprattutto, consono ai suoi principi. Negli anni Settanta, infatti, com’è noto, la critica genetica
iniziava ad avere un’importanza sempre più crescente. Si verifica pertanto, per così dire, la felice
coincidenza per cui Bonaccorso poteva impegnarsi in un metodo critico che apprezzava, in quanto
fondato sulla rigorosa analisi documentale, operando al contempo su un oggetto di studio quale
Gustave Flaubert, scrittore a lui particolarmente congeniale, sia per la massa di manoscritti
tramandataci, sia per la sua qualità di homme de lettres, severo e puntuale, da poter prendere ad
esempio.
Non intendo tuttavia parlare di quell’’innamoramento’ che normalmente si verifica, ad esempio,
nei laureandi per l’oggetto della loro Tesi di Laurea, ma di qualcosa di più complesso, così da
apparire talvolta esasperato: cioè la consapevolezza, come mi ha ripetuto più volte, che Flaubert
rappresentava per lui il modello ideale di studioso in cui identificarsi, intransigente anzitutto con
sé stesso, scevro da piaggerie ed eccessiva mondanità, alieno ai facili successi, negato a qualsiasi
compromesso per quanto concernesse il suo lavoro, pronto a sacrificare tutto e tutti sull’altare
dell’Arte.
A partire dalla fine degli anni Settanta, comincia dunque la terza fase, prettamente flaubertiana,
comincia l’impegno che coprirà, praticamente, il resto della sua vita.
Matura in questo periodo il progetto di pubblicare i mss. di Un coeur simple. È un lavoro improbo
suo e di noi suoi collaboratori, per la decifrazione, la trascrizione, la collocazione diacronica degli
oltre 300 fogli che confluirono nelle 30 pagine del racconto. E grande fu la fatica per pervenire ad
un’edizione che fosse all’altezza del lavoro fatto. Non sarò io a commentare il lavoro e il risultato;
lascio la parola a Enea Balmas che così esordisce nella sua recensione: «L’iniziativa della
pubblicazione del Corpus Flaubertianum costituisce in sé un avvenimento di cui si potrebbe
difficilmente sopravvalutare l’interesse e di conseguenza l’importanza» e così conclude: «Punto di
arrivo […] ma anche punto di partenza, questa impresa, nella quale è stato versato un patrimonio
di lavoro, di intelligenza e di passione che impone rispetto […] una realizzazione da cui gli studi
italiani di francesistica possono trarre motivo di viva soddisfazione» («Studi di letteratura
francese», XI, Firenze, Olschki, 1985; «Biblioteca dell’Archivium Romanicum», serie I, vol. 192, pp.
318-321).
Non insisto oltre sull’interesse che tale pubblicazione ha dimostrato, interesse convalidato anche
in occasione del Convegno su Flaubert e il pensiero del suo secolo, che Bonaccorso volle a Messina
nel 1984 e a cui partecipò il Gotha della critica internazionale.
Naturalmente, questo fu uno sprone a continuare per chi, comunque, aveva già deciso
flaubertianamente di proseguire per la sua strada, nonostante i sacrifici, morali e materiali. La
pubblicazione di Un coeur simple fu dunque, come diceva Balmas, «un punto di partenza», cui
seguì, unitamente ad una ricca produzione di saggi su riviste internazionali («RLMC», «Berenice»,
«Igitur», «Messana», «Revue Marivaux») l’edizione genetica di Hérodias (I e II tomo) e, a distanza
di circa vent’anni, quella de La légende de Saint Julien l’Hospitalier (1998).
Lavoro ingrato, lo ripeto, ma anche ricco di soddisfazioni, perché la critica nostrana e d’Oltralpe
non può, a questo punto, non considerare l’importante tessera che il lavoro di Bonaccorso apporta
al mosaico di ‘teorie’ che fioriscono intorno alle edizioni di manoscritti (edizione orizzontale,
diagonale, verticale, parziale, totale, ipertestuale…); sicché, contestato o approvato, esso rimane
comunque un pilastro fondamentale per questo genere di studi come dimostrano i consensi di
critici quali J.-L. Lebrave, secondo cui «G. Bonaccorso est un éminent spécialiste de Flaubert, qui
fait autorité pour sa connaissance des dossiers génétiques et pour la qualité du travail d’érudition
philologique auquel il a soumis ces manuscrits» (1994), A. Grésillon, la quale afferma che «Les
éditions de Bonaccorso, inégalées jusqu’à présent dans le domaine français et atteignant en même
temps un seuil crucial, pèchent, si l’on peut dire, par cette perfection même» (1994) e ancora Guy
Sagnes, Raymonde Debray-Genette, Pierre-Marc De Biasi, Jacques Neef e tanti altri; come
dimostra, soprattutto, il riconoscimento dell’Académie française.
Conclusa l’edizione dei Trois Contes, Bonaccorso sentì che il tempo per affrontare geneticamente
una delle grandi opere flaubertiane gli sarebbe mancato. Non volle tuttavia fermarsi, non volle
concludere la sua carriera di studioso senza intervenire su delle testimonianze le cui pubblicazioni
presentavano, a suo avviso, delle imprecisioni, delle inesattezze. Intendo la Correspondance di
Flaubert di cui sono apparsi due volumi da lui curati (Nizet).
Qui, in chiusura di vita, l’Uomo si mescola pericolosamente allo Studioso; e non resiste
all’impulso di aggiungere al titolo la specificazione Première édition scientifique che offende i
curatori (e ne conosciamo tutti i nomi ed il valore) di altre edizioni della Correspondance e irrita
taluni flaubertisti francesi. Est modus in rebus. Ma non per Bonaccorso che ha voluto, forse con
rigore eccessivo, affermare fino alla fine l’esigenza della massima precisione possibile per ogni
lavoro critico. Così come ha voluto accennare, in prefazione, alla sua crescita di studioso, al suo
procedere nel suo lavoro da solo, con pertinacia, con quell’’entêtement’ che nessuno gli potrà
negare, che per Flaubert era comunque motivo di merito, allorché affermava: «N’importe, j’aurai
toujours valu par mon entêtement» (lettera a L. Colet del [27 marzo 1853]). Impegno solitario di
studioso, a volte controverso, dicevamo, che può forse essere all’origine di certi comportamenti e
che ci richiama i versi della pascoliana Piccozza: Da me, da solo, solo con l’anima, / con la piccozza
d’acciar ceruleo, / su lento, su anelo, / su sempre; spezzandoti, o gelo!
Ascesa, solitudine, gelo: metafora di una vita, della sua vita che, ancora una volta, lo accomuna a
Flaubert, il quale, precorrendo Pascoli, scriveva alla Colet: «fermons notre porte, montons au plus
haut de notre tour d’ivoire, sur la dernière marche, le plus près du ciel. Il y fait froid, n’est-ce pas?
Mais qu’importe! On voit les étoiles briller clair et l’on n’entend pas les dindons» (lettera del [22
novembre 1852]).
Rosa M. Palermo Di Stefano
Ricordo di Carlo Cordié
Carlo Cordié, spentosi il 6 aprile 2002 nella sua casa fiorentina, era nato il 2 giugno 1910 in una
località del varesotto da famiglia di origine piemontese. Proprio in Piemonte fece gli studi primari
e secondari. Nel 1928 entrò alla Scuola Normale Superiore di Pisa, diretta allora da Giovanni
Gentile e dove ebbe come docente Attilio Momigliano e carissimi compagni di studi Alessandro
Perosa e Carlo Ludovico Ragghianti. Dopo la laurea e l’insegnamento in varie scuole secondarie
superiori, ebbe incarichi universitari a Milano, Parigi,
Bruxelles. Vinse il concorso a professore ordinario di Lingua e letteratura francese il 1° febbraio
1955 a Catania, fu trasferito a Messina due anni dopo, e, nel 1959, definitivamente, a Firenze, nella
Facoltà di Magi-stero, dove fu inoltre incaricato, per lunghi anni, dell’insegnamento di Letterature
moderne comparate. Ricoprì anche la carica di Preside di Facoltà. Passò ‘fuori ruolo’ nel 1980 e fu
collocato a riposo nel 1985 ottenendo la qualifica di Professore Emerito. In quello stesso anno fu
eletto Membro d’Onore di questa società. Nel 1974 era stato insignito della medaglia d’oro del
Ministero della Pubblica Istruzione per i Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte.
Cordié fu membro di varie Accademie e Istituzioni culturali, ma io credo, da suo ex-allievo e
assistente per molti anni, che la cosa che lo abbia reso più felice sia stata la nomina diretta, da parte
del Ministro, insieme a Roberto Ridolfi, insigne studioso di Machiavelli e Guicciardini, di Ispettore
Onorario delle Biblioteche della Toscana.
Come francesista, Cordié si è imposto, in primo luogo, con gli studi su Stendhal, a iniziare dal
1936 quando pubblicò uno studio giovanile intitolato Sull’arte della “Chartreuse de Parme”. Ben più
importante e noto fu però lo studio Interpretazioni di Stendhal: dal Bourget ai nostri giorni, del 1947,
che rappresenterà il trampolino di lancio verso i volumi di ampia mole dei decenni successivi,
spesso rappresentati dall’illustrazione di inediti stendhaliani. Ed ecco le Ricerche stendhaliane del
1967, le Divagazioni stendhaliane dell’anno successivo, le opere dello scrittore grenoblese curate per
l’editore Mursia.
Un altro settore della francesistica assai battuto da Cordié fu quello degli scrittori del Gruppo di
Coppet, particolarmente Benjamin Constant. I suoi preziosi contributi bibliografici su Madame de
Staël e compagni, usciti a puntate, a partire dal 1964, sugli «Annali della Scuola Normale Superiore
di Pisa» si affiancarono, o furono preceduti, da antologie sugli scritti politici o di varia natura di
Benjamin Constant, che riscossero l’approvazione, in campo europeo, dello stesso Alfred Roulin, il
quale curò l’edizione delle opere constantiane per la «Bibliothèque de la Pléiade». Nel 1954, Cordié pubblicò inoltre quegli Ideali e figure d’Europa in cui gli studi su Constant sono forse i più
importanti, e quel volume egli non volle farlo concorrere al Premio Viareggio malgrado
l’insistenza di Francesco Flora (quest’ultimo ebbe con Cordié un lungo sodalizio ed insieme
curarono le opere di Machiavelli per Mondadori).
Ecco ora altri titoli che concernono sia la letteratura francese che quella comparata in genere: Due
epigoni del Simbolismo francese: Albert Samain e Louis Le Cardonnel, del 1951, Studi e ricerche di
letteratura francese, del 1957, Romanticismo e Classicismo nell’opera di Victor Chauvet e altre ricerche di
storia letteraria, del 1958, Chateaubriand politico e altri saggi su uomini e idee dell’Ottocento francese, del
1959, Il Castello di Fontainebleau, del 1981.
Per la sua attività d’italianista, Cordié ebbe altrettanta importanza, e ben lo notò Mario
Bonfantini, il quale, nella prefazione a un suo volume del 1976, accostò il nome di Cordié a quello
di Giovanni Macchia quali francesisti che si occupavano altrettanto proficuamente di letteratura
italiana. Cordié fu noto in primo luogo per i i suoi studi e le sue edizioni di Teofilo Folengo, per i
quali ampie lodi riscosse, fin dagli anni trenta, da Benedetto Croce in Poeti e scrittori del pieno e tardo
Rinascimento. Inoltre, curò, presso Casini, l’edizione monumentale delle memorie di Casanova, che
sarà successivamente sfruttata e lodata da Piero Chiara quando si occupò della stessa opera per
Mondadori. Voglio inoltre ricordare varie edizioni di classici italiani curate per la Ricciardi con la
consueta acribía filologica e i meriti di Cordié quale pioniere nella riscoperta di Gian Pietro Lucini,
meriti più volte riconosciuti da Edoardo Sanguineti.
Conosciutissima, infine, la figura di Cordié quale bibliografo ed esperto di biblioteconomia di
fama internazionale (Valentino Bompiani lo soprannominò «il Binda della bibliografia», Carlo
Pellegrini «il poeta della bibliografia» e Massimo Colesanti «il mago della bibliografia»). E a questo
punto, oltre ai contributi bibliografici su oltre settanta autori italiani e francesi, apparsi in «Cultura
e Scuola», è doveroso citare quel poderoso Avviamento allo studio della lingua e della letteratura
francese, uscito nel 1955 presso Marzorati. Esso ebbe il saluto entusiasta di Jean Bonnerot e
costituisce ancor oggi un valido strumento di lavoro per si si accinga a ricerche intorno ad autori
della letteratura francese.
Sempre Valentino Bompiani definì Cordié, in Via privata, uno dei suoi libri autobiografici più
riusciti, «un dio dello scrupolo e della filologia» e, in interviste televisive o giornalistiche,
riconobbe il contributo indispensabile di Cordié alla gestazione e al compimento dell’opera che
l’Editore considerò sempre il suo fiore all’occhiello, ossia il Dizionario letterario Bompiani degli autori,
delle opere e dei personaggi di tutti i tempi. Cordié ne fu il revisore bibliografico oltreché, s’intende,
l’estensore di moltissime voci e mi raccontò le grandi difficoltà pratiche sorte, in periodo di guerra,
per la gestazione dell’opera.
Cordié fu inoltre direttore di varie collane scientifiche, raffinato curatore e apprezzatissimo
traduttore, non solo dal francese moderno, ma dal provenzale antico, dall’antico francese e dallo
spagnolo.
Ho già ricordato Cordié su alcune riviste e altri miei interventi appariranno in futuro. In essi, ho
alluso alle sue relazioni con varie personalità di rilievo del Novecento (un nome per tutti:
Benedetto Croce), ma la sinteticità di questo intervento m’impedisce di farlo anche qui. Dirò allora
solo che, essendo il sottoscritto stato invitato dai familiari a occuparsi dell’archivio di casa Cordié,
le migliaia di lettere sinora trovate (presto apparirà una missiva inedita di Ottone Rosai da me
curata per la «Nuova Antologia») e quelle da scoprire ancora richiederanno mesi e mesi di lavoro,
come lo richiederà la redazione di una bibliografia, pur selettiva, degli scritti di Cordié. Per
concludere questo mio intervento, leggerò ora alcune righe di una lettera dello stesso Rosai a
Cordié, già edita da Vittoria Corti nel suo vo-lume dell’epistolario rosaiano del 1987. Si tratta di
una missiva commovente del dicembre 1930 (ricordo che allora Cordié aveva venti anni e Rosai
trentacinque) e il pittore toscano, con l’intuizione propria dei grandi artisti, inquadra, in pochi
tratti, assai bene, il carattere del destinatario: «A Milano non ti parlai che poco perchè la tua faccia
mi mise soggezione e t’invidiavo quella tua apparenza di tramontano salubre. In quelle poche
parole che ascoltai da te ci sentii dentro il tuo mondo, e ti dico ora, dopo tanto tempo, che hai
dentro una bellezza, una bellezza immensa, grande. E il tuo carattere mi piace, diffidente, dolce al
tempo stesso, ma forte...».
Pier Antonio Borgheggiani
Ricordo di Jean Rousset
Nel rivolgere il nostro pensiero alla memoria di Jean Rousset, sappiamo di rivolgerlo alla figura di
un grande saggista e critico letterario, certo uno dei maggiori del Novecento. Credo pertanto
inutile, parlando in questa sede, menzionare gli onori, i riconoscimenti, o ripercorrere i tempi, le
date delle sue funzioni accademiche. Mi permetterò invece di proporvi alcune considerazioni sulla
sua opera – anche perché, credo, questo è il modo di ricordarlo ch’egli avrebbe preferito.
Ma anzitutto dirò, brevemente, qualche cosa dell’uomo che fu Jean Rousset. Alcuni di noi lo
hanno incontrato, conosciuto, o sono stati legati a lui – come chi vi parla – da una profonda
amicizia. Rousset, che amava il dialogo, non amava però parlare di sé né, tantomeno, proiettare
sulla sua persona le luci del proscenio. Era quanto mai riservato e tuttavia univa a questa
riservatezza una grande generosità. Due qualità che, credo, vanno raramente unite. Ma in Rousset
lo erano. Lo hanno dimostrato – ne darò questo solo esempio – le sue partecipazioni ai nostri stessi
convegni, in cui recò i suoi lucidi interventi ma anche un’attenzione, un ascolto che prestò ad ogni
ancorché modesto contributo.
Aggiungo che Rousset amava l’Italia, le opere d’arte di cui aveva una singolare, un’intima
conoscenza, le città che prediligeva e in cui faceva frequenti soggiorni; e così pure – se così posso
dire – un modo di essere che scopriva ed osservava in certi aspetti della società e della vita di ogni
giorno.
Ma vengo ora alla sua opera. Il primo libro di Rousset fu, com’è noto, La Littérature de l’âge
baroque en France (1953) – libro che segnò una data nel campo dei nostri studi. All’origine della sua
ricerca vi fu un’attrazione, vi fu il fascino che provò per alcune grandi opere della pittura e
dell’architettura barocche. Ma – e soprattutto in questo consisté la novità della sua prospettiva –
eglì percepì, identificò e descrisse nell’area allora poco o mal nota del primo Seicento francese, e
precisamente dei primi due terzi di quel secolo, più «tratti costanti» che gli parvero «in intimo
accordo» con i caratteri generali dell’arte barocca.
La sua Anthologie de la poésie baroque fran-çaise, pubblicata alcuni anni dopo (1961), presentava una
sorta di ‘montaggio’ che confermava e documentava la costanza di quei tratti. Non solo. La
presentazione e la lettura dei testi confutava la concezione tradizionale che contrapponeva un
«cattivo gusto barocco» all’armonia della «composizione classica». Inutile ricordare quella che fu,
nei decenni successivi, la fertilità della prospettiva di Rousset. Egli ha tuttavia continuato a
interrogarsi su ciò che chiama lui stesso il «paradosso barocco». E in uno dei suoi ultimi scritti,
Dernier regard sur le baroque (1998) – di cui non posso qui analizzare la complessità – ha concluso
che il barocco non è da intendersi come una nozione tale da designare una «età barocca» in sé
omogenea; e che tuttavia il termine può connotare, nella letteratura come nelle arti, forme in
movimento, forme che ne producono l’impressione o l’illusione.
Si noti che il concetto di «forma» non ha per Rousset un senso incerto o indeciso. Esso si ri-ferisce
alla configurazione di elementi che compongono il testo e che lo determinano come tale – elementi
che si esprimono nella lettera ma anche elementi che appartengono al campo dell’implicito e del
suggestivo. Ma ogni forma ha una sua identità. Pertanto la critica letteraria di Rousset – come
mostra la serie dei volumi di saggi che si sono succeduti nel tempo – si fonda su analisi che non
comportano schemi preesistenti; e, per parte sua, non costituisce né prepara la costituzione di un
sistema o di una «nuova scienza» della letteratura.
Si ricorda la formula di Bergson secondo la quale «la forme n’est qu’un instantané pris sur une
transition». Non so se Rousset abbia avuto presente questa formula là dove ha citato (in Forme et
signification, 1962) un passo di Delacroix in cui si legge «que si le tableau s’offre tout entier au
regard, il n’est pas de même du livre» – poiché un libro, «semblable à un ‘tableau en mouvement’,
ne se découvre que par fragments successifs». Questa scoperta successiva determina la corrente di
una prima lettura. Ma la memoria del lettore non riflette esattamente la sua prima lettura. E
soprattutto non la riflette la memoria di quello che Rousset chiama il «lettore esigente». Il compito di un tale lettore, infatti, «consiste à renverser cette tendance naturelle du livre de manière que
celui-ci se présente tout entier au regard de l’esprit». Tout entier, in altri termini come un tessuto,
come «una rete simultanea di relazioni reciproche», come una sorta di totalità ideale che quel
lettore sarebbe in grado di contemplare e di rappresentare.
Su queste basi la teoria letteraria (come si legge in Narcisse romancier, 1973) «non può non essere
empirica». Ma occorre precisare in che senso. La teoria letteraria – e a maggior ragione la critica – è
empirica poiché implica alla sua origine un’intuizione – un’intuizione che tuttavia è poi sottoposta
alla verificazione di una pratica e di un sapere. Una simile concezione naturalmente non esclude
ma anzi comporta l’esigenza d’introdurre distinzioni, di determinare principî di denotazione e di
classificazione.
Così ad esempio Rousset (in Le Lecteur intime, 1986) propone di distinguere il lettore dal
narratario, ossia di distinguere fra un lettore o più lettori reali – di cui è possibile, almeno
parzialmente od occasionalmente, registrare le reazioni in epoche e in ambienti determinati – e un
destinatario «iscritto nel testo», s’intenda un destinatario la cui presenza nel testo è rivelata da
«segnali diretti o indiretti» che gli sono appunto destinati. Si veda, in proposito, il saggio che si
intitola L’inscription du lecteur dans “La Comédie humaine”.
Gli esempi di questo genere sono numerosi. In Leurs yeux se rencontrèrent (1981) Rousset
costruisce un modello che tuttavia «più che una legge imperativa è uno strumento critico, utile per
interrogare i testi, per porre loro delle domande atte a farli parlare». In Forme et signification egli
cerca di definire una «morfologia» del romanzo epistolare, pur osservando che il genere può
divenire, in epoca romantica, un «diario camuffato».
E soprattutto, in Le Journal intime, egli pone questa domanda iniziale: «Come leggiamo questi diari intimi?» E anche: «Che cos’è un testo scritto solo per sé?» Un tale testo può essere assolutamente «senza destinatario»? Rousset distingue dei «gradi successivi di assenza e di presenza». Se non un destinatario reale, l’autore ha davanti a sé un destinatario ideale o, almeno, l’idea di un destinatario. Egli sarà probabilmente, un giorno, il lettore dei propri diari. In questo libro Rousset descrive, con l’esprit de finesse che gli appartiene, tutta una gamma di prospettive e di forme possibili. È dato concepire, ad esempio, una scrittura del presente? Certo non può non sussistere, sepur minima, una distanza temporale. Ma si hanno anche , al contrario, casi di diari rimaneggiati e riscritti, o addirittura fittizi. Oppure, secondo la regola enunciata da Maurice Blanchot, un diario deve necessariamente «rispettare il calendario» e attenersi a questa «clausola di regolarità»?
La ricerca di Jean Rousset, in ogni sua fase, ha seguito una linea coerente in quel lungo periodo – la seconda metà del Novecento – in cui la critica letteraria ha subìto radicali trasformazioni.
Cosciente e partecipe di tali trasformazioni, Rousset ha conservato, nell’apertura e insieme nel sottile rigore del suo discorso, una costante autonomia. Per questo – o anche per questo – le sue pagine, a differenza di tante altre che pure conobbero una grande fortuna, hanno ancor oggi il loro rilievo e il loro significato. Vorrei solo esprimere qui, nel concludere, l’auspicio che qualcuno dei nostri soci – forse delle più giovani generazioni – pensi ora di dedicare all’opera di Jean Rousset la
sua attenzione e il suo studio.
Arnaldo Pizzorusso
Commemorazioni