Commemorazioni

Commemorazioni

 Nel corso dell’Assemblea annuale della S.U.S.L.L.F. tenutasi a Firenze il 16 dicembre 2005
sono stati commemorati i Soci scomparsi Wolfgang Leiner, Mario Luzi, Corrado Rosso e Domeni-
co Zampogna.

 Pubblichiamo il testo delle commemorazioni di Wolfgang Leiner (Cecilia Rizza), di Mario
Luzi (Giuseppe Antonio Brunelli), di Corrado Rosso (Carminella Biondi), di Domenico Zampogna
(Rosa Maria Palermo Di Stefano).



Ricordo di Wolfgang Leiner

L'8 febbraio di quest'anno, dopo alcuni mesi di una implacabile malattia, moriva in
Tübingen, la città nella cui Università era stato per anni titolare della cattedra di Letteratura
francese, il nostro Collega e Socio onorario della nostra Società Wolfgang Leiner.

 Era nato nel 1925 a Ottenhausen nella Saar e nell'Università di quel land si era laureato nel
1956 con una tesi sul Venceslas di Rotrou.

 Specialista della letteratura francese del XVII secolo, aveva dedicato un primo gruppo di
studi al teatro di Rotrou soffermandosi nell'analisi della lingua del Venceslas e di Cosroès e più
tardi su alcuni aspetti del Saint Genest, per poi affrontare con successo, nella sua tesi di dottorato,
un genere di opere, Les lettres dédicatoires, spesso trascurato dalla critica, eppure significativo dei
rapporti tra letteratura, società civile e potere politico.

 Numerosi suoi contributi hanno riguardato successivamente il Francion di Sorel e più in
particolare il sogno di Francion analizzato in funzione della coesione e della coerenza di tutto il
romanzo. Altri importanti lavori sono stati dedicati alle Lettres portugaises, interpretate come un
patetico soliloquio e alla Princesse de Clèves di Madame de La Fayette messa a confronto con i
testi della spiritualità contemporanea. Meritano di essere segnalati altresì le sue ricerche quasi
pionieristiche su J.-P. Camus, l'originalità della sua interpretazione di Corneille, sia per le
implicazioni politiche rilevate nel Cinna, sia come autore di dediche per i personaggi ai quali
richiedeva protezione per le sue opere. Anche i poeti sono stati oggetto d'importanti contributi,
come dimostra la sua fine analisi del tema della morte in Ronsard e Chassignet, la sua lettura del
Promenoir des deux amants, di Tristan l'Hermite, il saggio su Théophile de Viau, ammirato
soprattutto per la grande libertà del suo spirito.

 I suoi interessi erano aperti anche ad altri campi della storia letteraria: penso ai suoi lavori su
Jules Verne, su Ionesco, sulla letteratura africana di lingua francese, sulle presenze tedesche nella
letteratura francese del Seicento e, per contro, su L'image de l'Allemagne dans la littérature fran-
çaise; penso anche ad uno dei suoi primi articoli dedicato al tema della solitudine nel nostro Cesare
Pavese e pubblicato sulla rivista "Die Neuen Sprache" nel 1966.

 In tutte queste opere Wolfgang Leiner ha dato prova non soltanto di una solida preparazione
e di una rigorosa metodologia critica, ma… di una rara onestà intellettuale e di una grande
sensibilità nell'analisi dei testi.

 La sua nascita in un paese di confine l'ha sicuramente predisposto ad una particolare a-
pertura mentale, alla capacità di guardare al di là degli stretti confini del suo specifico ambito di
ricerca, per dialogare con le persone, le opere, le mentalità più diverse. La sua abilità nel
promuovere la collaborazione di studiosi di diversi paesi attorno a un tema di comune interesse,
favorita anche dalla sua più che decennale esperienza di docente di Letteratura francese e comparata
all'Università di Seattle negli Stati Uniti è ben nota. Si devono alla sua iniziativa raccolte dal titolo


particolarmente suggestivo quali: Onze études sur l'image de la femme au XVIIe siècle del 1978, e
ancora, nel 1984, Onze nouvelles études sur l'image de la femme dans la littérature française au
XIIe siècle, La métamorphose dans la poésie française et anglaise nel 1980, L'âge d'or du mécenat
nel 1983, Horizons européens de la littérature française au XVIIe siècle, nel 1987.

 In questo ambito deve essere ricordato il suo fondamentale contributo alla vita di molte
istituzioni come la "Société d'études du XVIIe siècle", l'"Association internationale des études
françaises", il CMR 17 "Centre Méridional de Recherches sur le XVIIe siècle" e la nascita, in
collaborazione con Roger Duchêne, di quel "Centre International de Rencontres sur le XVIIe siècle"
di cui è stato attivo e instancabile presidente fino a quattro anni fa.

 Vorrei inoltre citare qui i suoi rapporti del tutto particolari con il nostro Paese, a partire da
un suo primo lavoro sulla fortuna di un sonetto di Baldassarre Castiglione nella poesia francese del
Seicento, e via via con la sua collaborazione alla rivista "Studi francesi", al Dizionario critico della
letteratura francese per cui scrisse alcune eccellenti voci su Malherbe, Furetière, Huet, Samain.
Tutti noi abbiamo conosciuto la sua attiva presenza ai nostri congressi, che si tratti del Convegno
internazionale di Lecce sulla plurileggibilità nel 1981, di quello di Roma sui "Minores", nel 1983, di
quello di Genova su La découverte des nouveaux mondes nel 1992 e di moltissimi altri ancora a
Roma, a Napoli, a Monopoli, a Bologna.

 Questa sua esperienza di studioso e di docente, di "clericus volans" come lo definiva
scherzosamente, ma non troppo, Corrado Rosso, è alla base delle sue molteplici e fortunate
iniziative editoriali. Nascono nel 1970, durante il suo soggiorno in America i "Papers on French
Seventeenth Century Literature" giunti ormai al loro sessantatreesimo numero, ove sono stati
accolti, con assoluta libertà, sia dal punto di vista metodologico che sul piano ideologico, i
contributi di numerosi studiosi di diversi paesi, la collezione dei volumi di "Biblio 17" che pubblica,
tra l'altro, gli Atti di molti colloqui della North American Society for French Seventeenth Century
Literature e del CMR 17 e del Centre International de Rencontres sur le XVIIe siècle e, in tempi più
recenti, la rivista "OEuvres et critiques" che, sull'esempio del già citato Dizionario critico, ha come
scopo di mettere in luce "la réception critique des oeuvres littéraires" offrendo così, sottolineava
Franco Simone nel salutarne con favore la nascita, "una prospettiva critica storicamente fondata" su
autori e testi.

 Per tutte queste sue iniziative, per questa imponente mole di lavoro, per l'ampiezza e
l'originalità dei suoi contributi scientifici Wolfgang Leiner ha ricevuto nel 2003 il gran premio
dell'Académie française destinato a chi, si legge nella motivazione, ha contribuito in modo
eccezionale "au rayonnement de la langue française dans le monde".

 Scriveva qualche anno fa Jacques Morel, Wolfgang Leiner ha rappresentato al meglio "la
culture, le scrupule, l'ouverture à toute méthode susceptible d'une universelle communication. Et
surtout l'alliance fort rare de deux qualités également indispensables au chercheur: la fidélité à ce
qu'on a fait et l'accueil de cet étrange double de soi qu'on devient à toutes les étapes de sa vie
intellectuelle et humaine".

 Per molti di noi qui presenti e soprattutto per me, che ho avuto il privilegio di conoscerlo
quasi quarant'anni fa quando con la moglie Jacqueline seguiva i corsi di lingua e cultura italiana
organizzati dall'Università di Genova a Santa Margherita Ligure (ed io ero il loro insegnante...) e ho
goduto della sua simpatia e della sua fiducia, Wolfgang Leiner non è stato soltanto un Collega
stimato ed ammirato, uno studioso e un docente esemplare, un vero maestro per molti giovani, già
suoi allievi, e oggi illustri professori a Colonia, a Kiel, a Princeton, capaci di prenderne la relève,
per portare avanti, coraggiosamente, tante sue iniziative, ma un amico discreto, affettuoso, fedele, di
cui piango, con sincera commozione, la perdita.

Cecilia Rizza

 

Ricordo di Mario Luzi

Premetto: non son qui per parlarvi di poesia. Più ancora che alla poesia, e al poetico e al
bello, Mario Luzi aprì la sua mente al pensiero filosofico e ai problemi dell’umanità. I suoi massimi
autori, a parte un Euripide o uno Shakespeare, non furono Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annun-
zio, e nemmeno Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Tra i suoi massimi autori fu, dall’inizio, un
Sant’Agostino, come fu poi, più tardi lo scienziato e filosofo francese Pierre Teilhard de Chardin,
che, pronipote – per parte di madre – di Voltaire, è paleontologo e gesuita, e rappresenta anche og-
gi, con la sua sintesi scientifica e filosofica, il maggior tentativo di conciliare ragione e fede in una
prospettiva evoluzionistica e insieme teologica.

 Tema dominante della poesia di Mario Luzi è del resto l’angosciosa contrapposizione tem-
po-eternità, individuo e cosmo. “La sua opera – mi ha scritto quest’anno da Padova il padre e diret-
tore antoniano Luciano Bertazzo – è una sorta di colloquio col mondo degli uomini e con la storia, e
diventa presa di coscienza del lacerarsi di una civiltà” (Padova, 29 marzo 2005).

 L’argomento è approfondito nell’articolo che ho fatto fotocopiare, per voi, del nostro collega
dell’Università di Trieste prof. Pietro Zovatto, teologo, storico e poeta; fotocopiare insieme a due
poesie: una, fra le più belle di Luzi, è Essere rondine, con splendida versione francese di Ben Félix
Pinô, oggi pure lui scomparso.

 Aveva grande capacità di spaziare e partecipare, capacità di solitudine, Mario Luzi, uomo di
pace sempre attivo e sempre irrequieto.

 Mario, il poeta, il docente, il fiorentino, è difficile, per me che l’ho conosciuto, pensarlo da
solo; eppure, quando il 28 febbraio 2005 ci ha lasciato, è morto solo, nella sua stanza e nel proprio
appartamento di via Bellariva, dove, ormai da una trentina d’anni, viveva da solo, lettore e
viaggiatore instancabile.

 Nato nella periferia di Firenze nel 1914, alla vigilia della nostra guerra 1915-1918 che a-
vrebbe segnato anche la sua infanzia, è ancora a Firenze che, in via Bellariva, Mario Luzi ha con-
cluso, nell’ottobre 2004, i suoi novant’anni di vita, da solo qui abitando ormai da una trentina d’an-
ni, anche senza essere mai stato separato dalla sua ottima moglie, che egli aveva sposata arrivato ai
ventotto anni, nel 1942, anno di guerra: Elena, con la quale restò ancora in qualche rapporto; né tan-
to meno egli poté sentirsi mai separato dal figlio, Gianni, l’ingegnere, nato nel 1943 e per il quale
aveva potuto gustare la gioia di sentirsi padre, divenendo, con gli anni, anche un nonno e un bis-
nonno, felice dei successi del figlio e dei nipoti.

 Grazie al libro recente di Anna Maria Biscardi su Mario Luzi: note di vita dall’archivio della
memoria, la quale ha registrato queste note, per giorni e giorni, in casa del poeta e dalla bocca stessa
di Mario, spesso limitandosi, lei, a trasformare in terza la prima persona di questa dettatura, attra-
verso queste note ho potuto sapere molte cose che non appartengono soltanto alla cronaca, com’è,
ricordata dal poeta, alla fine, “la sua ultima casa, porto si-curo per arrivi e partenze (davvero viaggi
suoi senza numero), per slanci e ritorni, casa base di sogni e di raggiunti traguardi (come la cattedra
universitaria, ottenuta dopo tanti anni di insegnamento e quasi alla vigilia del pensionamento per i
suoi settant’anni, o come per il titolo di senatore, ottenuto a novant’anni e poco prima di lasciarci);
casa-eremo frequentato e così pittorescamente prossima all’Arno là dove il fiume scorre non lonta-
no dai colli prospicienti questa Firenze più fiumarola” come la chiamò Luzi.

 Nel 1936, laureatosi a Lettere e Filosofia su François Mauriac a soli ventidue anni, con il
professore Luigi Foscolo Benedetto, forse il maggiore riconoscimento come docente lo avrebbe a-
vuto da Carlo Bo, quando lo volle per vent’anni professore di Letterature Comparate nell’Universi-
tà di Urbino, Mario Luzi, già traduttore-poeta dal francese, dall’inglese e dallo spagnolo: traduttore
di Racine, di Shakespeare e Tirso de Molina.

 Luzi, sia pure solo inizialmente e per breve tempo, fu insegnante di greco e di latino nella
scuola di stato, dove avrebbe poi insegnato per tanti anni italiano al liceo, facendovi conoscere i po-


eti a lui cari a partire dall’amatissimo Dante. Non per nulla il suo primo libro di saggi critici, da lui
poi arricchiti, riediti e sempre perfezionati, s’intitola L’Inferno e il Limbo, dal primo saggio del
1945 di questo volume, pubblicato nel 1949 “nel mezzo del cammin” dei trentacinque anni di Luzi
e contenente pagine dove si parla anche di Leopardi e, attraverso questo e altri autori, di modernità.
All’Università, docente di lingua e cultura francese a Scienze Politiche dal 1955, cioè dai
suoi quarantun’anni fino ai settanta (1984), Mario Luzi terrà corsi su Marcel Proust oltre che su
Paul Valéry, e già autore nel 1952 di uno Studio su Mallarmé sarà autore poi, fra l’altro, nel 1956,
di Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese e, nel 1962, di Lo Stile
di Constant; ma, per tutta una vita, fu sua la collaborazione a riviste e giornali (lo si vide per anni
collaborare con Indro Montanelli), collaborazioni che lo portarono ad interessarsi di letteratura te-
desca come di letteratura sudamericana, interessato persino al cinema, da critico e da poeta; e fu an-
che critico d’arte, lui stesso disegnatore di ritratti; conferenziere e prefatore in occasioni innumere-
voli, continuamente intervistato e premiato.

 Dei molti libri su di lui cito per concludere il volume, che lo inserisce in un dialogo-intervi-
sta, che è stato pubblicato a Firenze alla soglia dei suoi ottant’anni, nel 1993, da Marco Nardi edi-
tore; un libro di 190 pagine: autori lo stesso Mario Luzi e Mario Specchio, e titolo: LUZI – leggere
e scrivere, dove ci si informa su tutte le sue letture e i suoi scritti, con finale completa bibliografia
delle medesime pubblicazioni fino a quella data.

 Vi invito a leggere la poesia di Luzi Essere rondine, un bellissimo autoritratto della sua irre-
quietudine.

 Potrei parlare per ore, ma ritengo che il tempo concessomi per questo mio breve intervento
sia scaduto. Spero di non avervi annoiato. Vi ringrazio dell’ascolto.

Giuseppe Antonio Brunelli

 

Ricordo di Corrado Rosso

Corrado Rosso, nato a Torino il 22 agosto 1925, dopo la laurea in Filosofia conseguita nella
sua stessa città nel 1948, con una tesi – poi pubblicata – dal titolo Figure e dottrine della Filosofia
dei valori (1949 e 1973), lavora per molti anni all’estero in qualità di lettore di Italiano all’Univer-
sità di Rennes, di “attaché culturel” e professore universitario a Stoccolma, di vice-direttore dell’I-
stituto di cultura italiana a Marsiglia. Nel 1962 rientra in Italia ed è incaricato dell’insegnamento di
Lingua e Letteratura Francese prima all’Università di Pisa poi di Bologna. Nel 1968 è chiamato,
come vincitore di cattedra, all’Università di Bologna, dove conclude la sua lunga carriera univer-
sitaria, al termine della quale è insignito del titolo di professore emerito. Nel frattempo ha insegnato
anche, a vario titolo, in numerose università straniere: Carleton (Ottawa), Sarajevo e Belgrado, New
Orleans e Saint-Louis, La Laguna (Tenerife), Halle e Dresda, Nizza, Grénoble e Digione, Segovia e
Madrid, e ha tenuto cicli di conferenze al Forum Europeo di Alpbach (Austria) e all’Institut de
Hautes Études di Bruxelles. Numerosi sono i ruoli svolti e i riconoscimenti ottenuti. Importanti ac-
cademie lo hanno accolto fra i suoi membri (Bologna, Bordeaux, Lione). Ha collaborato alle più no-
te riviste italiane e straniere di studi filosofici e letterari, è stato co-direttore della rivista “Studi
Francesi”, ha fondato e diretto la rivista “Spicilegio Moderno” (dal 1972) e le collane “Studi sull’u-
guaglianza” (dal 1973) e “Histoire et critique des idées”(dal 1983).

 Non è facile sintetizzare nelle poche parole di una commemorazione, o di un ricordo, la fi-
gura di un grande studioso come Corrado Rosso, uno studioso noto anche al di là dei confini della
Francesistica, stimato, magari anche discusso, proprio perché le sue idee suscitavano dibattito, meri-
tavano attenzione, innescavano quei meccanismi di confronto che fanno progredire la ricerca. La
sua formazione di filosofo e le sue vastissime conoscenze nei settori più diversi – Jean Dagen ha


parlato di una “admirable culture européenne” – gli hanno permesso di portare uno sguardo nuovo
nel campo degli studi letterari, svecchiando formule troppo rigide e desuete. In questa capacità di
spezzare steccati e di mettere in comunicazione aree diverse del sapere, la ricerca di Corrado Rosso
si rivela oggi di straordinaria attualità, perché già prefigurava le posizioni più avanzate del nostro
tempo così avverso al canone e così aperto alla contaminazione di generi e di culture. Quello sguar-
do “altro”che portava sul testo lo ha aiutato a penetrare la pagina letteraria con lucida intelligenza e
raffinata sottigliezza, a smontarne i meccanismi, in una parola a leggerla e ad aiutarci a leggerla in
una prospettiva assolutamente inedita, spesso sorprendente e sempre molto godibile, perché al cri-
tico non mancavano belle doti di scrittore.

 Corrado Rosso è noto per le sue ricerche sul Seicento e sul Settecento (Illuminismo, felicità,
dolore. Miti e ideologie francesi, 1969; Les tambours de Santerre. Essais sur quelques éclipses des
Lumières au XVIIIe siècle, 1986; Aspects inédits du XVIIIe siècle. De Montesquieu à la Révolution,
1992), ma i risultati più alti e più fecondi li ha raggiunti nello studio della scrittura aforistica, studio
che egli ha contribuito ad attualizzare e quindi a rilanciare. Tutti gli specialisti del genere ricono-
scono il suo imprescindibile contributo e si richiamano ancora oggi ai suoi lavori. Mi limito ad indi-
care, scegliendo nella sua vastissima bibliografia, alcuni dei libri più apprezzati: Moralisti del “bon-
heur” (1954 e 1977), Virtù e critica della virtù nei moralisti francesi. La Rochefoucauld, La Bru-
yère, Vauvenargues (1964 e 1971), Montesquieu moralista. Dalle leggi al “bonheur” (1965, tr. fr.
1971), Procès à La Rochefoucauld et à la maxime (1986), Saggezza in salotto. Moralisti francesi ed
espressione aforistica (1991). Sotto la sua guida, e con il contributo delle sue allieve, in primis della
sua “allieva prediletta” nell’ambito degli studi sulla massima, la germanista Giulia Cantarutti, il
Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università di Bologna ha creato, pres-
so la casa editrice Il Mulino, la collana “Scorciatoie” che è il segno più tangibile della vitalità e del-
la continuità della sua ricerca. La collana si è inaugurata, nel 2001, con la ristampa di quello che è
unanimemente riconosciuto come il libro fondante di un nuovo corso di studi sulla massima: La
“Maxime”. Saggi per una tipologia critica (pubblicato, in edizione originale, nel lontano 1968).

 Vorrei concludere questo breve ricordo con le parole che Werner Helmich, noto studioso
della scrittura aforistica, ha usato nella prefazione alla nuova edizione dell’opera di Rosso: “La Ma-
xime ha contribuito come poche altre opere della propria epoca ad aprire la strada alle nuove corren-
ti. La grande fama di cui gode, e non soltanto in Italia, nasce da un fatto assai semplice: in un modo
o nell’altro gli studiosi della scrittura aforistica sono e si considerano suoi debitori. In questo senso
genetico il libro di Corrado Rosso appartiene in effetti al presente: ha dato impulso anche ad inda-
gini critiche al di fuori della letteratura francese e ha additato ai francesisti, e indirettamente agli ita-
lianisti, un paesaggio ricchissimo e quasi sconosciuto”.

Carminella Biondi

 

Ricordo di Domenico Zampogna

 Il 21 ottobre 2004 si spegneva, per un male incurabile, Domenico Zampogna. A me tocca il
compito di ricordarne soprattutto la figura di docente e studioso; ma mi sembra giusto, prima di
procedere ad un discorso propriamente scientifico, dedicare almeno un pensiero all’uomo, amico
corretto, signore nel tratto e nell’animo, mai invadente, mai presenzialista, però di assoluta fiducia,
di sicura lealtà.

 Appena laureato, Domenico Zampogna frequenta, a Parigi, l’Alliance Française, fino al
“Professorat”, quindi la Sorbonne fino al IVème degré, ed è poi ammesso all’école Normale
Supérieure. Qualche anno dopo, avendo acquisito, tra l’altro, un’eccellente conoscenza della lingua
francese, rientra in Italia e inizia, presso la Cattedra di Lingua e Letteratura francese della Facoltà di
Magistero di Messina, la carriera che lo porterà a superare il concorso di professore di prima fascia.


Nei lunghi anni intercorsi fino alla morte, Domenico Zampogna ha condotto, accanto all’incessante
attività didattica, un importante lavoro di ricerca, soprattutto nell’ambito della letteratura del XIX e
XX secolo. Ne sono risultati numerosi saggi, che spaziano da Charles Cros a Maurras, da Anna de
Noailles a Barbey d’Aurevilly, da Baudelaire a Renan, da Flaubert a Bourget, da Daudet ad
Apollinaire, da Coppée a Benjamin Constant. Un’attività intensa, qualificata, che si caratterizza, a
mio avviso, per l’accurata indagine documentale e l’intelligente analisi, per le solide basi
filologiche e l’impianto critico di ampio spessore.

 Non potendo, in questa sede, soffermarmi sull’intera produzione, vorrei ricordare alcune
delle opere che hanno lasciato un’impronta particolarmente significativa nell’ambito della ricerca.

L’esordio bibliografico è del 1968, con una monografia su Charles Cros dal “Parnasse” al
Simbolismo (Messina, Peloritana Editrice) e si inserisce nel filone di critica che in quel periodo,
afferma Zampogna, tende “a rivalutare scrittori considerati dapprima come minori, ma la cui
influenza non è stata trascurabile per la formazione dell’estetica simbolista” (p.6). Egli ricostruisce
dunque la biografia di un Cros “incapace di unità interiore e di coerenza d’azione, orgoglioso e
solitario, desideroso di percorrere strade nuove in campi troppo diversi” (p.14), e ne individua i
rapporti con personalità eccentriche, le frequentazioni, le collaborazioni con i gruppi più innovativi,
più dissacranti del tempo.

 A questa prima monografia fa seguito, nel 1980, il volume su Raymond Radiguet (Napoli,
Fratelli Conti Editori), insignito del “Premio Calabria” per la saggistica. Mi limito, in questo caso, a
riportare alcune parole di Charles Dédéyan, nella sua Prefazione al testo. Egli osserva, tra l’altro,
che “l’analyse est conduite de main de maître”, che “la biographie historique et psychologique de
Raymond Radiguet a trouvé son interprète le plus qualifié”; e rileva che questa monografia “ne vaut
pas seulement par sa remarquable documentation, par le raisonnement et l’interprétation critiques,
elle vaut aussi par les qualités de l’écriture”.

 Del 1988 è la raccolta di studi intitolata Jalons littéraires (Napoli, Fratelli Conti Editori). La
varietà degli argomenti è denunziata da titoli come: De quelques influences françaises sur l’esprit et
l’OEuvre de Manzoni; Le monde parallèle de Barbey d’Aurevilly; L’ironie de Flaubert dans
‘Madame Bovary’… varietà che trova però una sua unità fondamentale nel metodo rigoroso, nella
ricerca approfondita che fissa, appunto, dei jalons littéraires, individuando, tra l’altro, quattro
tipologie dominanti di scrittori dell’ottocento: l’ironista, il veggente, il nostalgico, l’esteta.

Ancora significativo appare il volume Léon Daudet (la penna e la spada) (Messina, Samperi,
1991), mirato soprattutto a colmare con un rigoroso approfondimento scientifico le lacune degli
studi, fino ad allora condotti soprattutto con un approccio di tipo giornalistico. Il testo,
accuratamente documentato, getta infatti nuova luce sulle vicende umane e letterarie dello scrittore.

Simile intento sembra presiedere all’ultima monografia, Benjamin Constant à l’ombre de Madame
Charrière (Messina, Samperi, 2000), in cui Zampogna ricostruisce, con particolare finezza, i
rapporti, le influenze tra i due scrittori.

 Vorrei, di questo saggio, ricordare alcune parole della Préface dello stesso autore, che
volevano essere una professione di metodo, ma che ormai sono, di fatto, un testamento letterario:
“En étudiant la littérature on a souvent l’impression que les noms et les oeuvres ne sont guère que
des étiquettes, si bien que l’ensemble apparaît comme un catalogue de bibliothèque où tout est
soigneusement classé et numéroté selon un ordre logique et rigoureux où il n’y a plus trace de vie.

Si l’on veut connaître véritablement un personnage, on ne peut s’en tenir à une lecture de son oeuvre
ou à une critique, si exacte ou si fidèle soit-elle, mais il faut s’identifier à l’homme que l’on
recherche, retrouver l’ambiance où il a vécu et essayer de recréer ses états d’âme, bref le suivre
dans sa formation”.

 Metodo, forse, non in linea con i critieri di analisi attuali, metodo che, forse, ha tenuto
Domenico Zampogna un po’ “à l’écart” rispetto alle stelle di prima grandezza della francesistica
attuale. Vanno però riconosciuti allo studioso la coerenza nell’applicazione di tale metodo, l’alacrità
nella ricerca che ne è conseguita, l’importanza delle sintesi argomentative che ne sono risultate.

Accanto alla produzione più propriamente scientifica, vorrei ora ricordare un altro aspetto della
personalità di Domenico Zampogna, che al primo è però strettamente collegato, come dimostra la
sua frequente presenza in tanti validi studiosi. Intendo quella creatività che prende vita attraverso la
poesia o la narrativa e che rappresenta forse, a mio parere, una marcia in più per ben penetrare e
analizzare le opere altrui.

 La creatività, in Zampogna, ha dato origine a brevi e gustosi racconti, ad una poesia che è
riflesso dell’io profondo. Testimonianza di quest’aspetto poco noto è la recente raccolta (2002) di
racconti e poesie in versione bilingue, raccolta quasi presaga, direi, e il cui titolo mi pare
particolarmente significativo: Gli occhi della solitudine. La Prefazione, dello stesso autore, ne
denuncia le caratteristiche salienti: “Queste pagine sono un percorso. L’angoscia feroce che spesso
affiora si risolve, attraverso la catarsi della scrittura, in riflessioni e meditazioni lentamente e
dolorosamente ancorate alla solitudine. I temi ricorrenti sono come la cronistoria delle sofferenze
vissute, assunte nel più profondo dell’anima. Così questo libro si chiude su di sé stesso con i suoi
resti sacri di ogni umano naufragio” (p.12). Solitudine come calvario, compagna di viaggio, come la
Morte, più volte citata, forse chiamata: “cette Mort qui viendra je lui veux un regard […] La Mort
aura pour moi ce regard” (p.25); “la douce étreinte de la Mort” (p.35); “mese di maggio/La mia
morte/ Un’assurda libertà/pesa sulle mie spalle/E’ dolce oramai/la dimora del silenzio/Tu ed io, noi/
siamo già oltre la morte” (p.43).

 Su tutto, però, domina l’orgoglio e il testo diventa affermazione di uno spirito libero che dal
suo silenzio insegna molto a molti di noi: “[la solitudine] dà l’orgoglio della sofferenza, privilegio
che gli Dei accordavano agli esseri superiori, della pena che esce dal particolare per iscriversi
nell’universale” (p.11). Ed è, ritengo, per un sentimento di fratellanza artistica più che di
colleganza che Zampogna ha voluto, pochi mesi prima di morire, partecipare al Seminario su
Giovanni Dotoli, francesista e poeta bilingue, organizzato da Gabriella Adamo e dalla sottoscritta e
tenutosi a Messina il 20 aprile dello scorso anno. In quell’occasione, già consapevole del suo male,
già provato, mi confidò di sentirsi “in piena tempesta”, ma non volle rinunciare a rendere omaggio
al collega, con una relazione dal titolo La poesia ardente di Giovanni Dotoli. Relazione che è una
fine analisi della poesia dotoliana, colta nelle sue pieghe nascoste, nei suoi echi più lontani, ma è
anche, a mio avviso, un testamento letterario, un parlare di sé, dei propri sogni, della speranza della
memoria grazie all’arte, un trasmettersi, in qualche modo, ai posteri. Cito alcuni passi: “Questa
poesia [di Dotoli] mi appare come un solido legame tra la materia e lo spirito, tra noi e la divinità.
Vi sono espressi sentimenti così profondi da imprimere di sé tracce indelebili” (p.59); “La sua
poesia è […] memoria, vittoria contro il tempo, continuità, perennità” (p.60); “Grazie al poeta noi
riceviamo il prezioso dono di essere vissuti prima di essere venuti alla luce, di vivere una vita al di
sopra della nostra caducità” (p.69).

 Poesia, dunque, come baudelairiana elevazione, al di sopra dell’umana caducità, oltre le
sofferenze della quotidianità. Come ben lasciano intendere quelle parole con cui Domenico
Zampogna chiude la sua relazione su Dotoli, e che io vorrei adesso, chiudendo, parafrasare in suo
ricordo: “La lezione di vita di Giovanni Dotoli” ma io dico anche di Domenico Zampogna “diventa,
così, palpabile, nel vortice dei tormenti quotidiani. Di fronte alle costanti tribolazioni espiatorie egli
ci aiuta a innalzare la nostra anima”.

 Rosa Maria Palermo Di Stefano